È sfruttamento o lavoro? Tra working poor e caporalato

DAL VOLANTINAGGIO ALLA RACCOLTA POMODORI, I LAVORI SOTTOPAGATI CHE I MIGRANTI SONO COSTRETTI AD ACCETTARE

Che cosa si intende per lavoro e quando diventa sfruttamento? Questo è il tema affrontato mercoledì 20 febbraio durante il secondo incontro dei Laboratori di Partecipazione Sociale, curato dalla professoressa Vincenza Pellegrino dall’Università di Parma. Attraverso le testimonianze di chi si è trovato in una situazione di sfruttamento – ovvero Oumarou Guene e Papa Ndiogou Ndiaye, e l’esperienza di Silvia Guaraldi, sindacalista del Flai – Cgil – si è discusso delle problematiche concrete di questo fenomeno, connesse ad un altro tema ampiamente dibattuto come l’immigrazione.

La lezione si apre con una domanda alla quale tutti i presenti erano tenuti a rispondere: quali sono i requisiti che contano per un lavoro che possiamo considerare ‘accettabile’ ? Uno dei risultati più frequenti è il rispetto reciproco fra colleghi, funzionale nella buon riuscita delle differenti mansioni e nella creazione di uno spazio armonioso. Al secondo posto una retribuzione equa, seguito da un contratto di lavoro regolare. Ma quale sarebbe la soglia minima di stipendio per poter parlare ancora di lavoro? E quando si ha in mente lo sfruttamento nel lavoro, chi ci viene in mente? C’è chi ha parlato di lavoratori cognitivi, chi di lavoro come animatore, dove per una media di tredici ore al giorno, il fatturato mensile è di 350 euro al mese. “Non mi sono sentita tutelata dal mio paese” è ciò che afferma la sindacalista Silvia Guaraldi, riportando sia la sua storia di animatrice, che quella di barista del suo compagno, al quale non era concessa “nemmeno mezz’ora di pausa in un turno di 14 ore”.

LA DENUNCIA DI CGIL E I ‘WORKING POOR’– La sindacalista della Flai – Cgil fa parte della categoria del sindacato che segue i lavoratori dell’agricoltura e dell’industria di trasformazione alimentare. Prima di stabilirsi in Emilia Romagna, Silvia Guaraldi racconta di aver conosciuto altre realtà italiane, come quelle della Puglia o della Sicilia, e rivela che lo sfruttamento nel lavoro ricopre sezioni più ampie di quelle che si pensa. Parlando del meridione e dello sfruttamento nel lavoro, la sindacalista racconta del caporalato, il sistema informale di organizzazione del lavoro agricolo temporaneo, spesso legato ad organizzazioni malavitose: “Il caporale recluta i lavoratori e li porta a lavorare nelle aziende. È solo quando si presenta lo stato di schiavitù che la parola lavoro può essere sostituita con sfruttamento. Questa condizione di maltrattamento si ha solamente in presenza di determinate condizioni: mancato pagamento, mancato rispetto dell’orario lavorativo, e mancato rispetto delle norme sanitarie“. Ma lo sfruttamento della manodopera a basso costo è rientrato a far parte dei reati penali solo nel 2011 e solo nel caso della presenza delle condizioni citate.

“C’è un tariffario – aggiunge la sindacalista – Il migrante è quello che viene pagato meno, poi ci sono le donne e poi gli uomini”. Da cosa viene istituita questa piramide di salario? Dal fatto che i migranti, approdati in Italia, necessitino di un lavoro per il principio primario di sopravvivenza, intrinseco in ciascun essere umano: di conseguenza, “si sentono forzati ad accettare qualsiasi lavoro possa trargli sostentamento, seppure il più misero e sfruttante che si possa trovare”. Da questa linea Guaraldi profila il fenomeno dei ‘working poor’, che sta prendendo sempre più piede in Italia: “Lavoratori che sono poveri nonostante lavorino”. Per quanto possa sembrare paradossale, la categoria copre 12 lavoratori su 100, i quali, nonostante percepiscano uno stipendio, sono a rischio povertà. E nelle nostre vite, ogni giorno, incontriamo lavoratori in questo modello, come per esempio i riders di Deliveroo o Just Eat.

DUE MIGRANTI PORTANO LA LORO TESTIMONIANZA – Oumarou Guene e Papa Ndiogou Ndiaye sono stati i protagonisti della terza parte della conferenza. “Spero che non accada a nessuno di voi quello che è successo a me” inizia il racconto Oumarou. Partito dal Burkina Faso, in una notte del 2011, Oumarou decide che la sua strada è lontano dalla sua patria: con una macchina riesce ad attraversare la Libia, passando attraverso i controlli rigidi delle frontiere, e ad imbarcarsi su una nave che lo porterà a Genova. La sua prima esperienza lavorativa è in provincia di Milano, prima di spostarsi in Puglia per raggiungere il fratello. È proprio attraverso lui che Oumarou trova lavoro appena arrivato, ed è sempre attraverso suo fratello che il ragazzo decide che la sua fatica non può valere 5 euro ogni due ore per la raccolta di pomodori. Scelta azzardata o coraggiosa? “È grazie ai volontari, che sono diventati per me degli amici, che ho aperto gli occhi ed ho capito di non meritarmi questo sfruttamento. Ed è grazie a loro che ho deciso di cambiare strada e cercare qualcosa che mi avrebbe reso più felice”. Per questo motivo Oumarou sente l’esigenza di cambiare e si sposta a Parma, dove intraprendere il lavoro di volantinaggio: per i primi due mesi, però, si ritrova in una situazione analoga se non peggiore a quella affrontata in Puglia, dal momento che il lavoro non era retribuito; adesso tuttavia viene “pagato, sì, anche se pochino. Non è come mi aspettavo”.

Papa Ndiogou Ndiaye si dimostra invece un ragazzo scherzoso, nonostante il suo passato non sia così divertente. “Sono qui in Italia dal 2011, e provengo dal Senegal. Insieme a mio fratello maggiore sono partito da casa per andare in Libia, per poi attraversare il Mediterraneo e arrivare in Italia. Mi fa sempre molto male raccontare la storia, perché è in viaggio che ho perso mio fratello, davanti ai miei occhi. Sono un ragazzo a cui piace girare: per questo ho avuto tanti lavori, in tantissime città italiane. Ho studiato italiano, e ho fatto di tutto per integrarmi”. Il suo percorso lavorativo è partito dalla Sicilia, scappando poi a Foggia e in seguito a Genova. Riscontrando problemi con la lingua, Papa prova varie volte ad entrare in territorio francese, ma viene sempre bloccato alla frontiera dopo Ventimiglia perché senza documenti. “Sono un ragazzo con la testa dura: per questo ho provato tre volte ad entrare in Francia, ma sono sempre stato respinto”. Ritornato a Genova, il giovane è rimasto in stazione per due mesi. Nel 2016 si sposta a Bergamo e trova un lavoro presso un ristorante, dove lavorava alcuni giorni dodici ore di seguito mentre nel weekend arriva anche a quattordici, per un totale di 650 euro al mese. “250 euro se ne andavano per l’affitto, e in più mandavo un po’ di soldi a mia mamma e alle mie cinque sorelle”. Dopo altre ricerche, Papa finisce a Parma, dove dopo un periodo in stazione, viene preso sotto l’ala protrettrice di un’associazione di accoglienza. Ma, comunque, “preferisco lavorare e venir pagato poco, piuttosto che non farlo” spiega il giovane che  adesso si definisce piuttosto felice, avendo trovato lavoro presso una cooperativa locale.

di Annachiara Magenta

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