Quei diritti a metà, quelle vite sospese

ABILI AD AMARE, DIRITTO ALLA SESSUALITA' NELL'ITALIA DEI TABU'

Sesso e disabiliLe loro – come tante altre – sono vite appese ad un filo, saldamente aggrappate alle vite degli altri. Delicate, vacillano lentamente tra la vita reale e quella ideale, tra i diritti concessi e quelli negati. Aspirazione di cui non sono tanto protagonisti, quanto vittime, nell’utopia che raggiungano un’idea di vita il più facile, ricca e ‘normale’ possibile, attraverso gli strumenti e i mezzi di cui dispongono.

All’interno di questo quadro si inserisce un aspetto da molti aggirato se non addirittura negato, perché, diciamo chiaramente: “E’ già una grossa tensione avere un figlio con disabilità, per cui si eludono almeno quei tasti che non è indispensabile toccare”, ci spiega Paola, madre di Emanuele, 26 anni, scomparso nell’estate di quattro anni fa. Con lei Stefana, mamma di Chiara, 23enne affetta dalla sindrome di Williams. I tasti di cui parlano non riguardano prettamente la sfera sessuale della vita di un disabile, ma anche le problematiche di fondo: l’imbarazzo da parte della società e delle famiglie, la chiusura nell’esplorazione di certi argomenti, l’impossibilità di mettere in pratica soluzioni adeguate, la mancanza di un aiuto concreto e l’intolleranza ancora profondamente radicata ai tabù, retaggio del cattolicesimo e della cultura occidentale. Così, molte famiglie ferite, umiliate e indifese, hanno dovuto farsi carico di un fardello infinitamente vasto.

 

Come avete vissuto la sessualità dei vostri figli?

Paola: “Io ho vissuto la pubertà di mio figlio in maniera abbastanza diretta perché, a differenza delle femmine, gli uomini hanno delle manifestazioni più evidenti, che lasciano un segno. Quando mi sono accorta che Emanuele cominciava ad avere queste pulsioni, l’ho sempre buttata in ridere: ‘Fa niente tesoro, quando ti succede vai in bagno, ti lavi, ti cambi le mutandine e non succede niente’. Poi c’è stato un periodo in cui capitava molto spesso e avevo sentito il bisogno di confrontarmi con qualcuno: mi sono rivolta prima ad un neuropsichiatra, il quale mi ha spedita da un collega; a sua volta, quest’ultimo mi ha suggerito di affidarmi al mio ‘buon senso’. La domanda principale che mi ponevo – e che nessuno mi ha aiutato a chiarire – era: cosa faccio? Gli insegno come si fa? Cioè, gli dico ti devi togliere le mutandine e magari vai in bagno? O lascio che si bagni e insisto sul fatto che dopo vada a cambiarsi e a lavarsi?”.

Stefania: “Il vissuto di Chiara, mia figlia di 23 anni affetta dalla sindrome di Williams, rimane un vissuto ancora autoerotico. Ma io mi chiedo se resti così perché è un desiderio loro, o se invece rimanga a tale livello perché non c’è mai stato modo di poterlo far diventare qualcosa di diverso”.

 

Quanto è difficile per un genitore scavare in un aspetto così intimo della vita del proprio figlio?

Stefania: “E’ molto difficile, in un certo senso è innaturale. Non so se mia figlia sappia cosa effettivamente sia un atto sessuale tra un uomo e una donna: non so se sarebbe giusto intervenire personalmente, o se, al contrario, le mie spiegazioni stimolassero in lei pensieri e preoccupazioni che potrebbero turbarla. Non so fino a che punto sia riuscita a capire cosa significhi, non so quanto la tema, non so se la desideri, non so neppure se lo vorrebbe sapere, o se ci pensi quando si costruisce le sue aspettative sulle storie e sull’amore”.

 

Come si comportano le famiglie di fronte a questi bisogni?

Paola: “Credo ci siano genitori che fanno molta fatica ad accettarli, e mi dispiace perché questi ragazzi già non hanno niente, se poi la famiglia stessa è contraria e li ostacola, ancora peggio. Vogliamo ammetterlo oppure no, il sesso è uno dei piaceri della vita ed è più che naturale anche per loro, solo che, a differenza nostra, non hanno la stessa prudenza o accortezza. Quindi penso andrebbero intanto educati i genitori, rendendoli consapevoli che non è un dramma, ma un’esperienza che è giusto vivano. Io non volevo che Emanuele dovesse fare a meno del sesso perché considerato un tabù, il sesso non è un tabù. Avevo così cominciato a cercare di informarmi perché sarei stata disposta anche a portarlo a donne, dico la verità, per me sarebbe stata una cosa normalissima (dopo non sai mai come la può prendere, come può reagire…): all’occorrenza, io sarei stata una di quelle mamme che lo avrebbe accompagnato e aspettato in macchina”.

Stefania: “I genitori che negano la sessualità dei propri figli è perché non li guardano o non li vogliono vedere. La convinzione più diffusa è proprio quella secondo cui questi ragazzi non abbiano nessun tipo di impulso,  la gran parte dei genitori sono convinti di questo”.

A questo punto interviene anche Ludovica, educatrice presso una cooperativa in provincia di Parma: “Il discorso è molto sottile e complesso, quindi nell’affrontare la tematica è facile riscontrare una forte resistenza da parte dei genitori, proprio perché mette in moto delle dinamiche, dei pensieri, dei sentimenti, dei ragionamenti molto personali”.

 

Che cosa manca in Italia?

Paola: “Il grosso problema secondo me sta nel fatto che mancano figure di riferimento, formate e competenti, a cui sia stato assegnato questo ruolo, per cui anche i genitori a volte devono farsi carico di un problema che non spetterebbe loro affrontare. La tematica è stata poco contemplata e io credo sarebbe utile istituire un ‘presidio’ dove le famiglie possano confrontarsi, ma dove non trovino persone che si limitino a dire loro di affidarsi al buon senso”.

Stefania: “Il problema è proprio questo. Solo adesso si comincia a parlare di certi argomenti, ma su linee vaghe e generali. Si parla cioè del diritto di questi ragazzi a vivere la loro sessualità. Su questo siamo tutti d’accordo, ma nella pratica che cosa vuol dire? Come li aiutiamo?”.

 

In conclusione, “Io credo – afferma Stefania – che queste difficoltà non siano insuperabili, dal momento in cui una persona riesce a trovare lo spazio per parlarne e per condividere con altri le sue opinioni. Quello che mi conforta è sapere Chiara serena. A differenza nostra, lei non fa confronti con quello che potrebbe fare o essere, è contenta di quello che le succede; mentre noi, a volte, la sofferenza ce la auto-procuriamo”.

“Molta gente non sa cosa vuol dire avere dei problemi – dichiara Paola – ma, a guardare il lato positivo, mio figlio è stato un’esperienza, mi ha aperto gli occhi, mi ha messo in condizioni di sapere quanto riesco a fare, a dare, ha fatto in modo che conoscessi me stessa e i miei limiti. Questi ragazzi ti danno possibilità che altri non danno, anche se so che nessuno questa cosa ce la invidierà mai”.

 

di Francesca Gatti

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