Il giornalismo non è più un lavoro per giovani: “Precariato, il vero male dell’informazione italiana”

Analisi, con il contributo del giornalista Mattia Motta, della situazione dell'informazione in Italia tra sbarramento all'accesso della professione, precariato e poche tutele. Perché i giovani dovrebbero essere giornalisti oggi?

 

Il giornalismo non è più un lavoro per giovani. In un contesto informativo come quello attuale, dove tutto va veloce e le informazioni on-line circolano a velocità stratosferiche, si potrebbe ipotizzare che il settore della stampa e dell’editoria debba necessariamente attingere alla freschezza e alle idee di una generazione nuova,  abituata a maneggiare i caotici strumenti della nuova rete informativa. Ma la realtà è un’altra. Quello che si percepisce è che il nostro giornalismo oggi, dopo anni di avanguardismo e innovazione si sia, per difesa personale, immobilizzato, chiuso in un castello inaccessibile dall’esterno e insensibile a ciò che gli accade intorno. Invece che accettare il cambiamento culturale e sociale, assecondando l’onda, ne è stato travolto e risucchiato. Tutto questo tende, ovviamente, a pesare maggiormente sui giovani, su chi per vocazione o talento tenta un primo, trasognante approccio a questa professione.

Di questi tempi fare il giornalista (o sperare di poterlo fare) in Italia sembra un’impresa impossibile da realizzare, una strada tortuosa alla fine della quale non si garantisce comunque una meta certa. Questo è quello che si evince dal rapporto pubblicato dall’Agcom nel 2020 sulla terza edizione dell’osservatorio del Giornalismo. I dati presentati, ci raccontano infatti di una professione invecchiata rispetto alle precedenti indagini con una forte diminuzione degli under-40, inversamente proporzionale ad un sensibile aumento degli over-50.

I dati dell’AGCOM

Come dice la stessa autority nel suo rapporto: “La distribuzione dei giornalisti attivi in Italia per fasce di età mostra un graduale e costante invecchiamento della forza lavoro: circa il 12% della popolazione attiva ha più di 60 anni, mentre tale quota era pari solo al 2% nel 2000, anno in cui più della metà dei giornalisti (53%) aveva meno di 40 anni, quota che ad oggi è scesa a meno di un terzo (30%). In sostanza, in poco più di tre lustri, il giornalismo italiano è passato dall’essere una professione sostanzialmente giovane, in cui oltre la metà dei giornalisti aveva meno di quarant’anni, a un’attività svolta da personale più maturo“.

Le notizie negative però, per le nuove leve dell’informazione, non finiscono qua. Nonostante il lavoro del giornalista, nel nostro Paese, sia uno di quelli a più elevata scolarità (oltre il 70% dei giornalisti ha un titolo di studio superiore al diploma) questo è caratterizzato da una distribuzione reddituale anomala rispetto al resto della popolazione italiana – e maggiormente polarizzata tra le fasce di reddito maggiore e inferiore – a scapito soprattutto dei lavoratori più giovani. Infatti, in un tipico sistema che premia più la carriera che il merito, si nota come il 72% degli under-35 guadagni mediamente meno di 20.000 euro annui, sensibilmente in contrasto con i dati degli over-55 che per più della metà superano questa soglia reddituale.

I tantissimi ragazzi che, mossi da passione e dopo anni di studio si affacciano a questa professione non hanno certezze, molti scrivono e prestano il loro impegno per pochi soldi (qualora venissero pagati), senza avere necessarie tutele e garanzie. Oltre a questo, rimane complicato l’accesso alla qualifica di giornalista professionista e la conseguente iscrizione all’Ordine, subordinata ad una serie di condizioni spesso difficilmente realizzabili. Infatti, possono diventare giornalisti professionisti coloro che hanno svolto almeno 18 mesi di ‘praticantato’, ovviamente retribuito e con contratto registrato (facile ai giorni d’oggi no?), in una redazione dove vi sono assunti già altri professionisti. Dopo dovranno sostenere l’esame per entrare nell’Ordine. Possono prendere il tesserino anche coloro che, in alternativa, hanno frequentato costosi master in scuole di giornalismo post-laurea riconosciute dall’Ordine dei giornalisti. Tutto questo espone in molti casi i ragazzi ad effettuare stage non retribuiti o scarsamente retribuiti solo per poter accedere all’albo professionale. Ma bisogna stare attenti, perchè c’è un limite minimo di retribuzione che deve essere stata percepita. Non è così insolito che testate – online e non – paghino così poco i loro collaboratori (pochi euro ad articolo) da non permettere loro di fare domanda neanche per l’albo dei giornalisti pubblicisti.

Non è un lavoro per giovani

Di fronte a questi impietosi dati ci siamo perciò chiesti in quale situazione fosse il giornalismo nel nostro Paese, cercando di indagare le cause e le ragioni di questo immobilismo e provando a capire quali fossero le ragioni per le quali è ancora lecito sognare di entrare a far parte del mondo dell’informazione. Per trattare questi temi ci siamo affidati alle parole e ai consigli di Mattia Motta, giornalista freelance, cronista e membro della Giunta Esecutiva-Segreteria FNSI a Roma.

Motta presenta così la condizione attuale del nostro universo informativo: “Fare il giornalista oggi non è più quella cosa romantica che era quindici anni fa. Il mercato del lavoro è durissimo, il precariato è il vero male dell’informazione italiana. Per diverse ragioni, come si può ben vedere dai dati dell’autority della comunicazione, questo non è un lavoro per giovani”.

Dal 2008 in poi (anno in cui è sbarcato l’Iphone in Italia e in cui ha cominciato a prendere piede Facebook) è cambiato il modo di fruire le notizie. “Questo lascerebbe presumere una maggiore necessità di giovani all’interno del mondo editoriale e della stampa, – spiega Motta – di persone che si sappiano relazionare meglio con il variegato mondo dell’infosfera. Il mercato del lavoro dell’editoria e dell’informazione però, non solo è invecchiato demograficamente, ma è anche rimasto ancorato a vecchi schemi e sistemi, senza capire fino in fondo come monetizzare dai contenuti on-line e social”.

In Italia, ad esempio, c’è il problema del Paywall (l’accesso a pagamento ai contenuti di un sito internet). “Le persone non capiscono perché pagare un abbonamento per qualcosa che potrebbero fruire anche gratuitamente. – continua Motta – Il problema culturale intorno al giornalismo italiano sta tutto qua. Il cercare di far pagare i contenuti di qualità on-line è fondamentale. C’è da rilanciare urgentemente il settore a livello industriale, trovare un business con soluzioni ed idee innovative e risolutrici. Questo però è possibile solamente combattendo lo svilimento della professione giornalistica e lavorando per ripristinare il prestigio dell’informazione autorevole”.

Mattia Motta

Combattiamo il precariato

Uno dei grandi mali della professione giornalistica in Italia è quello del precariato, che non solo costringe tantissimi giovani a periodi di praticantato sottopagato pur di poter vedere la propria firma alla fine di un articolo, ma scoraggia anche la ricerca di un giornalismo corretto e qualitativo, che insegua il racconto del reale. Mattia Motta sostiene che né gli editori né i giornalisti stessi siano riusciti al momento a produrre un’idea nuova che rilanci il giornalismo. Proseguendo su questa china, non solo l’informazione non sarà un settore per giovani, ma rischia di scomparire piano piano per come lo conoscevamo, “in favore di un settore fluido ed elitario dove ci sono pochissimi assunti circondati da collaboratori e precari”.

“Gli impietosi dati dell’Agcom, infatti, fotografano una categoria sempre più vecchia e che vive una dinamica di inside-out, in cui la forbice tra assunti e precari o freelance si sta divaricando sempre di più. Oggi, ogni 4 giornalisti attivi in Italia 3 sono precari. Sono anni che le assunzioni per i giovani sono bloccate, relegandoli ad una condizione di precariato assicurato, dove la gavetta può essere infinita. Un rischio molto alto di questa deriva è quella di rendere il giornalismo come lo pensiamo ora l’unico mestiere accessibile in base alla classe sociale di appartenenza. Ciò che intendo dire è che i troppi anni di sfruttamento e sotto-pagamento sono condizioni sopportabili solo da una ristretta categoria sociale, di persone benestanti che, non avendo bisogno urgente di lavorare per vivere, possono permettersi uno stipendio di cinquecento euro mensili. Questo elitarismo rischia però di rendere il racconto del reale (vero obbiettivo del giornalista) appannaggio solamente dei più ricchi, togliendo la democrazia dalla narrazione della nostra società. Altro dato preoccupante è che un precario che non ha altre entrate deve per forza puntare sulla quantità piuttosto che sulla qualità, dato che dal numero di articoli consegnati dipende anche la sua retribuzione. Capiamo bene perciò, che il lavoro certosino di indagine e ricerca passa in questo caso in secondo piano, rispetto ad una bulimia informativa dalla quale siamo sempre più attratti”.

L’accesso alla professione

Un ulteriore punto su cui si sofferma Motta è una riforma dell’ordine per l’accesso alla professione: “Se continuiamo con questo sistema facciamo solamente un favore al lavoro precario e alla confusione rispetto l’autorevolezza dei giornalismo, favorendo l’immobilismo professionale. Gli iscritti all’ordine oggi sono 120mila circa. Ad avere però una posizione attiva nei sistemi previdenziali di categoria sono solamente 40mila (12 mila assunti e 30.000 precari/freelance).

“Questo significa che esiste un doping del mercato dell’informazione, – continua Motta – di persone che hanno ottenuto la qualifica senza però prestare mai servizio giornalistico. Non è possibile che siano iscritte all’ordine il triplo delle persone che realmente svolgono questa professione. La carta di Firenze impone la solidarietà tra colleghi contro il precariato. Questa in dieci anni non ha mai visto una sua applicazione pratica ed il precariato, la competizione agguerrita tra colleghi ha proliferato così senza ostacoli”.

Il precariato come detto in apertura influenza il buon giornalismo concorrendo allo svilimento qualitativo delle notizie. Un’altra delle prassi dannose che troppo frequentemente si sta presentando all’interno del mondo della stampa è quello delle querele bavaglio, che sfruttano la condizione instabile di molti giornalisti. Queste sono strumenti intimidatori con le quali si tenta, minacciando i giornalisti con infiniti e costosi processi, di comprimere il diritto dei cittadini di essere informati. Il rischio elevato qui è che venga minata la ricerca, l’inchiesta e la volontà dei cronisti di indagare intorno alle questioni più spinose e complesse, agevolando quindi un autocensura da parte del lavoratore che vuole evitare di sperperare i propri guadagni in lunghi e costosi processi. Combattere il precariato perciò deve essere un obiettivo non solo della categoria interessata, ma dell’intero Paese, perché la buona informazione (che come visto è direttamente connessa alla condizione professionale del giornalista) è uno dei diritti costituzionali più importanti e che va riconosciuto a tutti i cittadini.

Svilimento della professione

Bisogna conoscere per deliberare” diceva in un vecchio adagio Einaudi; avere i cittadini informati, prendere conoscenza del reale in tutte le sue sfaccettature è fondamentale per garantire l’equilibrio costituzionale. Perciò capiamo quanto l’informazione sia una cosa seria, che troppo spesso, si sta dando per scontata. Tutto è a portata di mano, i social network veicolano informazioni in un flusso continuo senza filtri o verifica. Chiunque dotato di smartphone, in virtù dell’articolo 21, può produrre contenuti e manifestare legittimamente il proprio pensiero. Il problema nasce quando questo fondamentale processo democratico permetta di travalicare i limiti professionali e consenta a chiunque lo voglia di potersi autoproclamare giornalista, cronista ed editorialista. Il rischio di questo contorto meccanismo è che la qualifica e l’autorevolezza che derivano, oltre che dallo svolgimento professionistico del mestiere, da un preciso codice deontologico da rispettare, passino in secondo piano.

“L’informazione autorevole – ammonisce a questo proposito Motta – col “bollino blu”, frutto del lavoro di un giornalista professionista soggetto a diritti e doveri e ad un preciso codice di condotta deve essere rispettata e garantita. Se, l’essere giornalista non comporta, di per sé, la correttezza della notizia, è anche giusto riconoscere che alcuni pezzi, alcune testate valgano più di altre semplicemente per via della loro natura riconosciuta e ufficiale”.

In effetti negli ultimi anni stiamo assistendo ad un proliferare di pseudo-giornali online e profili social, gestiti da persone che, in virtù della libertina costituzione della piattaforma, rivendicano la qualifica di informatori realizzando così, un clamoroso e fragoroso abbassamento della qualità stessa dell’informazione e una conseguente declassazione della professione di cui, il tanto discusso fenomeno delle Fake-News e delle bufale on-line costituiscono solo la punta di un tenebroso iceberg. Come sottolinea lo stesso Motta il buon giornalista è quello che fa la differenza con l’asta del microfono: “Tutti oramai si sono abituati – prosegue- ad avere nel palmo della loro mano una cassa di risonanza senza precedenti che esula dall’intermediazione del cronista. Nei social network oggi l’informazione di qualità rappresenta quasi un rumore di sottofondo rispetto alla vastità di contenuti che si possono trovare. Per questo c’è bisogno di raccontare storie con prospettive nuove differenziandosi per l’appunto dall’asta del microfono. Ma questo non è possibile farlo se non si riconosce il valore dell’informazione giornalistica, che non è semplicemente la stesura di un verbale ma nasce dalla curiosità ed è frutto di indagine e ricerca”.

Speranze per il futuro

Come abbiamo visto fermare il cambiamento mediatico è impossibile. La tendenza alla diffusione gratuita o quasi dell’informazione da parte di moltissime piattaforme non deve però spaventare o rappresentare una scusa per non progredire. A questo proposito sempre Motta riconosce come il giovane giornalista deve darsi da fare cercando soluzioni innovative che provino a colmare i buchi dell’informazione italiana. “Guardando al futuro – suggerisce il cronista- c’è una cosa che sta funzionando in giro per il mondo e che spero attecchisca nel nostro paese, tanto nelle testate tradizionali quanto in quelle nuove: il radicale cambiamento del rapporto che la stampa e i mass media in generale hanno istaurato da secoli con i loro lettori, un rapporto top-down”.

“Oggi sta funzionando, specialmente nel Nord-Europa, il finanziamento da parte dei lettori dei singoli servizi- inchiesta. Questa è una delle ultime strade percorribili per rifinanziare il mondo del giornalismo, rilanciarlo soprattutto dal punto di vista della qualità e riaccendere la passione delle persone per il giornalismo di alto profilo”.

Indietro non si può più andare, perciò c’è da guardare in avanti,  non solo arrancando e sopravvivendo, ma  innovandosi e trasformandosi. Svecchiare la professione non significa e non deve significare unicamente sostituire i più “anziani” con i giovani ma, oltre a riconoscere un sistema meritocratico, tentare esperimenti e novità, rinnovarsi e cambiare prospettiva, senza perdere di contro quell’aura magica che investe il giornalismo.

homepage del sito Blankspot, uno dei primi a introdurre un nuovo rapporto tra stampa e lettori.

In conclusione Motta si rivolge a chi vuole fare questo lavoro consigliando però di non innamorarsi dell’idea di fare il giornalista; di perseguirla, di lavorare per conquistarla senza essere tuttavia accecati rispetto la realtà che ci circonda. “Bisogna consumare la suola delle scarpe, raccontare le storie che non sono ancora state raccontare, quelle più controverse. La scuola, la buona scrittura, il rapporto con i colleghi sono tutte cose molto importanti, ma il mio consiglio, se si è appassionati e si vuole percorrere questa strada, è fare gavetta, cercare notizie e riempire i buchi”.

 di Edoardo Gregori

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