Sostituti della carne: sempre più qualità a basso impatto ambientale. Il caso Beyond Meat

Nel seminario web organizzato dal MITA dell'Università di Parma si è parlato di meat analogues con il ricercatore e tecnologo alimentare Enrico Federici di Beyond Meat. La sfida sul mercato e per il pianeta? Renderli sempre più appetitosi e nutrizionalmente validi

carne coltivata

“Introduzione agli analoghi della carne” il titolo del penultimo appuntamento del Seminario Web organizzato dal MITA, il Master internazionale in Tecnologia degli alimenti delle Università di Parma e di Buenos Aires. A coordinare e a prendere la parola: Furio Brighenti, docente di Alimentazione e nutrizione umana dell’Università di Parma, ed Enrico Federici, innovation scientist presso l’azienda californiana Beyond Meat specializzata nelle alternative vegetali della carne.

Fino al 2031 si prospetta un aumento del consumo per anno di proteine di origine animale dell’1,4% e questo è dovuto soprattutto alla crescita demografica e del benessere nei paesi in via di sviluppo. Un recente rapporto della Commissione Europea stima che per coprire il fabbisogno richiesto in tutti i Paesi, il mondo necessiterà di 3,4 milioni di tonnellate di carne importata, cifra che si aggiunge ai 37,3 milioni di tonnellate attuali già consumati. Le proteine animali, però, hanno un impatto ambientale significativo a partire dalle emissioni di gas serra – fino a un 18% di quelle globali: l’industria zootecnica è il secondo responsabile dell’inquinamento atmosferico dopo l’industria energetica – che riguarda produzione agricola, gli allevamenti stessi, lavorazione e trasporti, cui si deve aggiungere l’inquinamento di acque e suolo, nonché il loro sovrautilizzo e spreco.

Ad oggi le alternative vegetali sono molte e sempre più competitive, ma i loro consumatori sono ancora troppo pochi: nel 2020, la vendita di analoghi plant-based si è attestata all’1% rispetto alla vendita totale di carne. In cosa le aziende del settore devono migliorare per poter rappresentare una valida alternativa, ipotizzando che il cambiamento climatico non sia una motivazione già sufficiente?

Proteine vegetali, ovvero la dieta per un futuro sostenibile

Facciamo prima una piccola premessa. Cosa sono le proteine? E quelle vegetali? Le proteine sono macronutrienti energetici complessi formati dalla combinazione di venti amminoacidi. Esse hanno un ruolo strutturale e funzionale: sono coinvolte nella crescita e riparazione dei tessuti, regolano il metabolismo e il funzionamento dell’organismo e servono a formare anticorpi. Il fabbisogno giornaliero all’interno di una dieta mista è di un grammo per chilogrammo di peso corporeo. Come riporta in “Fondamenti di alimentazione e nutrizione umana” (2017) la docente di Biochimica della Nutrizione Carla Pignatti, sulla base della composizione di amminoacidi, le proteine hanno una diversa qualità, parametro definito anche come valore biologico: esso dipende dalla composizione in amminoacidi AA essenziali e dalla loro digeribilità.

Noi sappiamo che le proteine ad alto valore biologico sono quelle contenute in uova, carne, pesce, latte e soia, mentre tra gli alimenti a medio e basso valore biologico troviamo rispettivamente legumi e cereali. Combinando questi ultimi (un piatto come pasta e fagioli, per fare un esempio), è possibile supplire alle carenze amminoacidiche dei singoli alimenti.

Di fronte al problema dell’impatto ambientale del bestiame, bisognerà sempre più considerare di introdurre nella propria dieta proteine di origine vegetale. Ormai si trovano tantissime ricette vegetariane e vegane, e se vogliamo variare l’alimentazione possiamo spaziare: seitan, tempeh, tofu solo per citare alcune alternative alla carne più elaborate. Abbinando come detto le diverse proteine fra loro, copriremo il nostro fabbisogno. In commercio poi troviamo molte tipologie di burger vegetali, che solitamente contengono combinazioni di legumi e/o cereali con verdure.

Imitare la carne: i casi Beyond Meat e Impossible Foods

Beyond Meat e Impossibile Foods sono due aziende californiane fondate dall’ambientalista Ethan Brown e dallo scienziato Patrick O. Brown nel 2009 e nel 2011. Specializzate in sostituti della carne e prodotti caseari vegetali, proprio nel 2011 hanno ricevuto investimenti da filantropi quali Bill Gates e Leonardo di Caprio. Nel 2016 entrambe le startup hanno lanciato sul mercato i loro burgers vegetali, il Beyond Meat e l’Impossible, e nel 2020 Beyond Meat ha registrato un fatturato pari a 97 milioni di dollari, con un 141% in più rispetto all’anno precedente. Un business dunque in crescita quello degli analoghi della carne.

Impossible Burger

Enrico Federici, innovation scientist per Beyond Meat, spiega che un’azienda che voglia creare un alimento di tipo vegetale che ricordi la carne dovrà fare particolare attenzione ai parametri texture, sapore, aroma e aspetto. Inoltre, il parametro dell’accettabilità deve essere alto perché il prodotto possa essere immesso nel mercato. Per emulare la texture della carne, sarà necessario restituire al prodotto la fibrosità del muscolo animale, mentre per sapore, aroma e aspetto bisognerà fare attenzione ai cambiamenti in fase di cottura del prodotto.

Le tecniche di texturizzazione si dividono tra strategie bottom-up e top-down. Nel primo caso si mira a riprodurre le fibre muscolari partendo da elementi strutturali, e qui entrano in gioco micoproteine, coltura in vitro, wet spinning ed elettrospinning. Nel secondo, abbiamo tecniche come estrusione, mixing di proteine e polisaccaridi, freeze structuring e shear cell technology.

Per quel che riguarda le bevande vegetali, lo scienziato sottolinea come esse ad oggi rappresentino il maggior introito delle aziende che producono alimenti plant-based: qui si dovrà guardare alla stabilità dell’emulsione, al sapore, all’aspetto, all’aroma, al colore e alla cremosità.

Più recenti nel settore dei meat analogues le bistecche stampate in 3D, dove una particolare tecnica di printing andrà ricreare le fibrille del muscolo.

Carne coltivata

Un’alternativa al consumo di carne tradizionale può essere anche quella della carne coltivata in vitro: risale al 2013 la prima dimostrazione pubblica in cui un hamburger coltivato è stato mangiato e valutato, per una spesa pari a 330.000 dollari. Gli scienziati della Maastricht University avevano isolato cellule bovine per poi formare fibre muscolari poi ricombinate per ottenere un burger.

In particolare, nella coltura in vitro si preleva tramite biopsia una quantità di cellule miosatelliti, cellule staminali in grado di differenziarsi sotto determinate condizioni in mioblasti, che allineandosi andranno a formare la struttura fondamentali delle fibre muscolari. Le cellule vengono inserite all’interno di bioreattori con supporti fatti di polimeri, mentre per favorire la miogenesi è necessario un medium colturale, che spesso è il siero fetale bovino.

Numerose le aziende che ad oggi sono impegnate nella ricerca in questo campo, ma di fatto la carne in vitro non è ancora arrivata sul mercato. Nel dicembre 2020 la Singapore Food Agency (SFA) è stata la prima autorità al mondo ad approvarla e i nuggets di pollo del brand Eat Just è stato il primo prodotto commerciale, con un prezzo che si aggirava intorno ai 50 dollari.

“Tra i problemi relativi a questa alternativa – spiega Enrico Federici- c’è quello del medium: si dovrebbero fornire determinati quantitativi di azoto, carbonio, vitamine e minerali, oltre alle molecole in grado di favorire la differenziazione delle cellule, sempre rimanendo a costi contenuti. Da non dimenticare anche l’ossigenazione necessaria e l’utilizzo significativo di antibiotici per evitare attacchi di batteri”.

di Maria Grazia Gentili

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