Com’è cambiata la rappresentazione delle persone LGBTQ+ sui media e non solo?
Oggigiorno, le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ sono rappresentate nel modo corretto sui media e al cinema? Tanto è ancora il lavoro da fare, come spiega Francesco Cicconetti
Una delle voci tra le più seguite sui social della comunità LGBTQ+ è quella di Francesco Cicconetti, il quale aveva iniziato contemporaneamente il suo percorso sulla piattaforma Ask e su Facebook, per poi aprire un profilo su Instagram, conosciuto con il nome @mehths. Cicconetti durante la puntata Come rappresentiamo le persone transgender al cinema? del podcast ShowOff, condotto da Francesco Oggiano e Giulia Valentina, ha discusso ampiamente questo argomento, condividendo il suo punto di vista e sottolineando le innumerevoli difficoltà. Ancora oggi, secondo Cicconetti, ci vergogniamo di pronunciare la parola trans, e tendiamo anche a non utilizzare in maniera consapevole alcuni termini come transgender e transessuale. La prima espressione è stata coniata dalla loro comunità, che non indica per forza un cambio di sesso o un’operazione, piuttosto la percezione che si ha di noi stessi. Con il secondo termine, si fa riferimento maggiormente al campo medico e quindi all’operazione effettuata.
Cicconetti ricorda come fin dall’inizio, i primi personaggi trans erano uomini travestiti da donne, ed erano associati a degli psicopatici, poi successivamente visti come vittime nelle serie crime, in cui il poliziotto trattava il loro corpo con superficialità. Cicconetti non ritiene giusto che vengano scelte persone cisgender (che si riconoscono nel genere e nel sesso biologico alla nascita), per interpretare persone transgender. Per esempio nel film The Danish Girl, le donne trans muoiono dopo l’operazione, oppure nel film Dallas Buyers Club, l’attore Jared Leto interpreta una donna trans.
Collegandosi alla realtà di tutti i giorni, Cicconetti nel podcast ricorda una serie di errori che oggigiorno avvengono ancora quando si cerca di rappresentare la loro comunità. Nel 2018 aveva rilasciato un’intervista raccontando la sua storia, scoprendo un titolo per niente appropriato: “Ragazza vuole diventare uomo”. Un titolo che gli ha portato dolore, soprattutto a livello famigliare, e questo dimostra quanta confusione sia diffusa tra i giornalisti, i quali dovrebbero essere molto più delicati nel diffondere determinate informazioni.
Un progresso evidente ma lento nei media
Nielsen, leader globale nella misurazione dell’audience, ha pubblicato due ricerche nella sua serie di report lgbtq+ Diverse Intelligence Series del 2022: “Seeking Authenticity. A View of International lgbtq+ Media Perceptions”. La prima si concentra su un’indagine internazionale effettuata da Dynata, raccogliendo tra il 2021 e 2022 circa 5.500 risposte, a partire dagli Stati Uniti, Canada, Messico, Italia, Germania, Francia, Brasile, Spagna e Regno Unito. La seconda, svolta sempre in collaborazione con Dynata, ha coinvolto circa 800 soggetti: 400 della comunità LGBTQ+ e altri 400 della popolazione.
La prima evidenzia come il 69% del pubblico LGBTQ+ ritenga che si stiano compiendo degli sforzi e passi avanti, soprattutto al fine di migliorare l’inclusività nei media, anche se il 27% delle persone non la pensa così. Le persone LGBTQ+ in generale sono più propense a ritenere che il settore dei media e i brand possano fornire una rappresentazione più accurata e dettagliata della loro comunità, al fine di evitare la diffusione, ormai evidente, degli stereotipi. Negli ultimi vent’anni, indubbiamente, è aumentata la loro inclusione nei media, sebbene non sia ancora sufficiente il lavoro fatto. Infatti, la crescita è abbastanza lenta, come lo dimostrano i dati di Gracenote, dove a partire da 817.000 titoli video, a febbraio 2022, solo 1.000 di questi erano relativi al tema LGBTQ+.
Bisogna però fare attenzione alla pratica del rainbow washing, ossia l’attività di sfruttare i diritti LGBTQ+ all’interno della comunicazione aziendale. Solitamente accade durante le attività sociali o di marketing che mostrano un’azienda come gay-friendly, con l’obiettivo di aumentare il consenso presso tale comunità. Non tutte le persone LGBTQ+ si sentono rappresentate allo stesso modo, infatti, l’inclusione nei media è più per i gay o le lesbiche, e coinvolge molto meno gli altri gruppi. L’80% di uomini transgender (persone la cui identità di genere non corrisponde al genere e/o sesso determinato dal momento in cui sono nati) e il 69% di bisessuali e pansessuali (quest’ultimi sono attratti da un individuo indipendentemente dal suo sesso o genere) ritengono di essere sottorappresentati.
Sandra Sims-Williams, Nielsen’s Chief Diversity Officer, ha sostenuto che “la comunità LGBTQ+ in tutto il mondo continua ad affrontare sfide significative, ma il settore mediatico globale può svolgere un ruolo nel facilitare cambiamenti positivi e fornire una rappresentazione più accurata sia della nostra società in generale e sia delle persone LGBTQ+”.
Netflix è considerata la piattaforma più inclusiva in cui si sentono maggiormente rappresentate le persone LGBTQ+, circa l’82%. Anche Freeda, media digitale nato per occuparsi dei valori dell’inclusività e della diversità, svolge un ruolo fondamentale. Andrea Scotti Calderini, amministratore delegato e cofondatore di Freeda, ha affermato che “in Freeda, empatia e ascolto della community sono la base per comprendere le esigenze delle nuove generazioni e il modo in cui queste concepiscono l’amore come un concetto universale che si applica a tutti gli esseri umani”.
E nel cinema?
Se ricordiamo i romanzi pulp gay e lesbici degli anni Quaranta e Cinquanta, ma anche i personaggi omosessuali dei film, venivano sempre dipinti come devianti o in maniera caricaturale, e il più delle volte erano diffamati e puniti. Poi con il tempo, il modo di rappresentare queste persone è peggiorato, soprattutto negli anni Ottanta con la crisi dell’AIDS che ha attirato l’attenzione del pubblico, influenzando ancora di più la costruzione dei personaggi LGBTQ+. Purtroppo, questo ha creato un nuovo fenomeno del bury your gays (seppellisci i tuoi gay, espressione che sta a indicare il fenomeno secondo cui si preferisce eliminare personaggi omosessuali in favore di quelli etero), in questo caso il gay sofferente malato di AIDS.
Molte sono state le forme di rappresentazione negativa come in un episodio di Midnight Caller, dove un uomo bisessuale infetta coscientemente i suoi partner con l’Hiv, e di fronte a questo scenario, i gruppi LGBTQ+ protestarono contro l’episodio per il ritratto negativo che era stato fatto.
Secondo Glaad, Gay & Lesbian Alliance Against Defamation, su un totale di 775 personaggi presenti nelle serie programmate per andare in onda nella prima serata per la stagione 2021-2022, 92 di questi fanno parte della comunità LGBTQ+, ossia l’11,9%. Ciò significa un aumento di 2,8 punti rispetto al 2021. La maggior parte sono donne lesbiche, circa il 49%, mentre gli uomini gay sono il 35%. Altro dato interessante, è la presenza in numero maggiore, per il quarto anno di fila, delle persone afroamericane appartenenti alla comunità LGBTQ+ rispetto a quelle bianche.
Nella serie televisiva del 2017 di David Lynch, Twin Peaks, l’attore David Duchovny sarà uno dei volti più amati e ricordati nel ruolo di Denise Bryson, una donna transgender membro dell’FBI. La caratteristica di Denise è di essere un personaggio positivo, lontano da un qualsiasi stereotipo diffuso sulle persone che hanno intrapreso un cambio di sesso.
L’ultima domanda che ci poniamo è se sia meglio non essere rappresentati oppure essere rappresentati male. a tal proposito, Cicconetti dice “di essere rappresentati male, perché almeno si può migliorare, se non sei rappresentato non esisti, e uscire dal non esistere non è facile”.
di Patricia Iori
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