Altre anteprime al Parma Film Festival

È giunta al termine anche questa edizione del festival, ma è davvero la fine? no, tanti altri incontri del post festival tra Kasia Smutniak, Michele Riondino e i 30 anni di Piccolo Buddha. Ma prima di questo qualche recensione delle anteprime presentate al festival: da Emma Dante a Aki Kaurismaki, fino a Alice Rorhwacher e, per chiudere in bellezza, l’ultimo film di Wim Wenders.

Vi abbiamo presentato le primissime anteprime che hanno dato il via alla 26esima edizione del festival (qui il link all’articolo), ma le altre? Quali grandi autori sono stati portati a Parma?

Subito dopo il weekend dedicato a storie di bambini e per bambini, nuovi e sorprendenti racconti hanno illuminato le sale dei due cinema d’essai della città di Parma, primo fra tutti Misericordia di Emma Dante.

Misericordia, un dolce racconto di miseria in una terra senza nome

(crediti: Parma Film Festival)

Siamo su un’isola, non sappiamo bene dove ma poco importa. Schiacciati tra terra e mare, gli abitanti di questo fazzoletto di terra vivono e sopravvivono con ciò che possono; sono anime abbandonate a sé stesse e dimenticate dal resto dell’umanità; tra queste si muovono bambini, uomini ma anche e soprattutto donne, per la maggior parte prostitute. In questa marmaglia di gente vive anche Arturo, trovatello bloccato nella sua eterna giovinezza. Non sa parlare, ma per comunicare usa il suo corpo: con la corsa, nella danza e nel suo girare come una trottola; così comunica la gioia, il dolore, la tristezza, la paura. Tre parche si occupano di lui, ormai da quando è stato trovato. 

Un racconto drammatico e tragico, in cui l’umanità è abbandonata e può trovare quel poco di riscatto nel poco amore, magari anche burbero e scarno, che nasce a fatica tra le macerie del mondo. Una storia dura e che colpisce nel corpo, penetrando nel cuore dello spettatore. 

Tratto dall’omonimo spettacolo teatrale diretto e scritto dalla regista, la storia trova un nuovo modo di ricreare la realtà in cui i personaggi della pièce teatrale si muovono: ciò che non si realizza sul palcoscenico viene portato sullo schermo con la magia della ripresa.

La regista ha avuto modo di presentare la pellicola prima della visione del film e poi, incontrare il giovane pubblico tramite le masterclass che si sono tenute anche quest’anno negli spazi dell’Università (ne abbiamo parlato qui).

Foglie al Vento, un amore straniante e malinconico

(crediti: Cineuropa)

Aki Kaurismaki, cineasta finlandese che nel 2023 festeggia il quarantesimo anno dal suo esordio, torna alla regia sei anni dopo il suo ultimo lavoro. Lo fa con Kuolleet Lehdet (Foglie al Vento), un racconto laconico e scarno di una relazione disagiata e alienante. Questo film è considerato dal regista come una continuazione della sua trilogia iniziata nel 1986 e composta da Ombre del Paradiso, Ariel e La fiammiferaia, dato che alcuni temi come il proletariato, l’alcolismo e i tratti biografici accomunano questo prodotto agli altri.

Holappa (Jussi Vatanen) è un operaio metalmeccanico isolato dal mondo e aggrappato alla bottiglia. Passa le giornate tra lavoro e alcool, concedendosi raramente qualche uscita con l’amico Houtari (Janne Hyytiäinen). In una di queste uscite Holappa incrocia Ansa (Alma Pöysti), una cassiera del supermercato segnata a sua volta dalla precarietà e da una storia familiare molto cupa. La decisione di uscire per un appuntamento avviene in un secondo incontro fortuito, da cui prende il via una storia d’amore travagliata e molto altalenante tra due persone allo stesso tempo molto simili e molto lontane tra loro.

Tutto il lavoro è improntato sullo straniamento dello spettatore, dalle radio anni ’70 da cui si ascoltano le notizie della guerra in Ucraina odierna, ai telefoni più simili al famoso Nokia 3310 che agli smartphone attuali, passando per tutta una massa di comparse che più che individui sembrano oggetti, soprammobili, che occupano uno spazio ma non lo riempiono. È un linguaggio brechtiano difficilmente reperibile nella scuola hollywoodiana, sicuramente difficile da comprendere, ma tremendamente espressivo nella sua inespressività.

Coup de Chance, colpi di (s)fortuna

(crediti: Parma Film Festival)

Con il suo 50esimo progetto, il primo recitato in francese, Woody Allen realizza una commedia romantica non convenzionale che si distingue per una profonda riflessione sul significato della vita, l’importanza delle coincidenze e l’influenza del destino. Questi temi sono trattati in modo innovativo, conferendo alla trama un’originalità che la differenzia dal genere, portandola ad un certo punto a diventare un giallo/noir senza però perdersi nell’investigazione.

La storia ruota intorno a Fanny e Jean, apparente coppia perfetta, realizzati professionalmente e felici nel loro splendido appartamento parigino. Lui, uomo tutto d’un pezzo che per mestiere “rende i ricchi ancora più ricchi” e per diletto frequenta i circoli dell’alta società esponendo ogni volta Fanny, impiegata in una casa d’aste, come “moglie trofeo”.

Tutto cambia quando Fanny incontra casualmente Alain, un ex compagno di liceo e scrittore sognatore. Questo incontro improvviso la sconvolge, portando ad un riavvicinamento rapido tra loro che sfocerà in una passione quasi incontrollabile. La situazione si complica ulteriormente con l’arrivo di Camille, la madre di Fanny, e la misteriosa fuga di Alain.

Insomma, a partire da un incontro inaspettato, il risveglio di emozioni dimenticate, l’inganno e il peso del senso di colpa, Allen indaga come, se da un lato ci sono coincidenze che intervengono – i famosi colpi di fortuna –, dall’altro c’è la volontà di essere creatori del proprio destino.

The Old Oak ci insegna il valore dell’accoglienza

(crediti: Corriere della Sera)

2016, Contea di Durham, nordest dell’Inghilterra. In un villaggio in declino di una ex zona mineraria, i pochi abitanti rimasti sono soliti riunirsi al vecchio pub The Old Oak. Il locale, gestito dall’idealista TJ Ballantyne, diventa mano a mano luogo di tensione e allo stesso tempo di unione tra gli inglesi del posto, dimenticati dal loro Governo, e i profughi siriani appena arrivati, dislocati dallo Stato.

Tra gli immigrati, in particolare, viene distinta la figura della giovane Yara, che a seguito di uno spiacevole incidente iniziale con un abitante del posto (le viene rotta la preziosa macchina fotografica reflex) instaura un rapporto quasi familiare con TJ. I due tenteranno, insieme, di mitigare l’odio crescente e imbastire un discorso di pace unendo le due comunità proprio nello storico pub.

La pellicola, che il regista Ken Loach (all’attivo più di 27 progetti pluripremiati) ha annunciato come ultima della sua carriera, si presenta nuovamente come una parabola sociale ed estremamente attuale nei temi, mantenendo lo stile classico di Loach da cinema militante.

La narrazione è coesa e lineare, mai trascurata. Veniamo condotti attraverso una trama che ogni tanto rischia di cadere nel didascalico, specialmente nei dialoghi tra Yara e TJ, ma che riesce ad evitare di cadere nel paternalismo. La cinepresa del regista non cerca lo spettacolare: la violenza viene infatti mostrata solo in due occasioni. Il regista preferisce un approccio di rispetto al dolore, lasciando un non detto che porta ad ulteriori riflessioni sul tema.

La Chimera ovvero viaggio nel limbo tra i vivi e i morti

(crediti: Parma Film Festival)

Anni ’80, Tuscia. Nella terra in cui le tombe dei morti vengono profanate dai vivi, si muove Arthur, chimera che fiuta i passaggi in cui i defunti riposano. Lo fa un po’ per mestiere, per poter vivere e sopravvivere in questo mondo insieme al suo gruppo di amici tombaroli, un po’ perché il mondo dei morti lo chiama a sé.

Arthur è un’ animula vagula blandula” (anima leggiadra che si muove vagando per la terra, un po’ come dice Adriano in uno dei suoi poemi più famosi) che si muove a metà strada tra questi due mondi, che rimangono interconnessi e in cui lui stesso ricerca il filo di Arianna per ritrovare la strada verso il suo amore perduto. È un Teseo che deve uscire dal labirinto, non perché ha trovato il minotauro (l’essere mitologico è lui stesso), ma perché deve ritrovare la sua Arianna

La chimera di Alba Rorhwacher rimane una storia dolce e profonda, che scava (un po’ come i tombaroli per cercare i tesori) nel cuore umano.

Perfect days: una storia analogica nel Giappone ipertecnologico

(crediti: SkyTG24)

Il connubio tra la cultura nipponica e Wim Wenders ci aveva già deliziato con Tokyo-Ga (1985), documentario dedicato a Yasujirō Ozu, storico regista giapponese. Oggi, a poco più di sessant’anni dall’ultimo film del sopracitato Ozu, Wenders propone una storia ambientata a Tokyo che riprende in molti sprazzi la cultura tradizionale del posto. Presentato a Cannes, Perfect Days non solo ha vinto il premio della Giuria Ecumenica, ma l’interpretazione di Kōji Yakusho è stata valutata come la migliore nella sua categoria.

Hirayama (Kōji Yakusho), che non causalmente porta il nome del protagonista dell’ultimo progetto di Ozu Il gusto del sakè, per impiego pulisce i bagni pubblici di Tokyo. Ripartisce la propria giornata tra il suo lavoro, in cui è particolarmente meticoloso, il parco in cui pranza tra una foto e l’altra agli alberi, l’onsen, una stazione termale in cui si lava e il ristorante in cui va prima di tornare a casa e leggere un libro. Le sue audiocassette, la sterminata quantità di libri, la fotocamera analogica, la sua routine ossessiva affascinano chiunque ci entri a contatto. Un modo di vivere austero e quasi eremitico autoimposto che si rivela in tutta la sua forza rivoluzionaria man mano che si palesa davanti agli occhi dello spettatore il passato del protagonista.

Il ritmo lento e le azioni ripetitive potrebbero risultare indigesti per lo spettatore che ha poca voglia di notare il sostrato concettuale del progetto, ma per chiunque sia pronto ad aprirsi a un modo nuovo di vedere il mondo è un film imperdibile. Lo stile documentaristico riesce a rendere poco percepibile la distanza tra realtà e finzione, resa evidente solo dal mondo onirico dei sogni di Hirayama che ripercorrono in modo artistico la giornata appena passata. All’eccezionale regia di Wenders siamo abituati, forse a sorprendere è però la prestazione magistrale di Yakusho, perfettamente in armonia con le emozioni e le ambiguità del personaggio interpretato. Questa è una storia che dà speranza a chiunque sogni una vita lontana dal fast capitalism contemporaneo, e non ne troverete tante altre in giro per le sale.

di Anastasia Agostini, Cristiano Guagliardo e Erika V. Lanthaler

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