Tra arte e scienza. Il restauro conservativo dei preparati anatomici
Una descrizione riassuntiva di come avviene il restauro di reperti museali poco conosciuti e spesso inosservati
La pratica clinica anatomica del XVII secolo e il sentimento di meraviglia delle importanti acquisizioni in ambito biologico derivanti dalle grandi esplorazioni trovavano la loro simbiosi esibizionistica nelle collezioni anatomiche delle scuole di medicina. La prima dei quali, in Europa, il Teatro Anatomico di Palazzo Bo, a Padova, realizzato nel 1594.
Durante il XVIII e il XIX secolo, vennero istituiti i Musei di Anatomia in tutta Italia. A Parma, nel 1845 venne aperto il Gabinetto di Zootomia a Parma, mentre i primi manufatti anatomici della collezione di anatomia umana dell’Università compaiono nel corso del XVII secolo.
Oltre a scheletri e cere, una parte fondamentale e interessante delle collezioni di questi musei sono i preparati anatomici.
Si tratta di pezzi anatomici, di apparati, organi interi, tessuti o dissezioni, trattate per poter essere conservate ed esposte. I reperti “a secco” sono disposti come opere d’arte su piedistalli e basamenti lignei, eventualmente sostenuti con uno scheletro inorganico. I reperti “in liquido”, come dice il nome, sono per lo più di parti organiche molto morbide, o frammenti di tessuti animali, immersi in una matrice liquida acquosa e sigillati dentro contenitori di vetro. Sono maggiormente noti nei musei di storia naturale, poiché in questa condizione venivano conservati i corpi interi di serpenti, anfibi ed anche pesci o echinodermi marini.
Le tecniche di conservazione
La naturale decomposizione della materia organica richiedeva che il reperto, per conservarsi, fosse trattato secondo precise tecniche, che vennero raffinate dagli anatomisti del XVIII secolo.
Un esempio ne è la tannizzazione, brevettata da Lodovico Brunetti (1813-1899), fondatore del Museo di Anatomia Patologica a Padova alla fine del 1870. Questa tecnica consiste nell’iniezione di acido tannico nei vasi sanguigni del preparato, precedentemente sciacquati e puliti, ed in seguito essiccati (Zanatta & Zampieri, 2018).
Non tutte le tecniche utilizzate per la preparazione dei reperti sono giunte fino ad oggi. In certi casi è possibile farne scoperta attraverso ricerche bibliografiche o analisi chimiche effettuate direttamente sui reperti.
La procedura di restauro
Considerando la natura duplice del reperto da restaurare, sia come componente museale dal valore scientifico sia come opera composta unica nel suo genere, del suo restauro esistono studi e casistiche occasionali e non una vera e propria scuola di metodo.
L’obiettivo del restauro è mantenere integre le condizioni originarie del pezzo, in modo che nessuno tipo di informazione deducibile dal reperto stesso venga cancellata dalla procedura conservativa (Restivo et al., 2019). Si tratta quindi di una serie di procedure delicate e non invasive, se non strettamente necessario.
Il restauro inizia con la ricerca. La raccolta di ogni reperibile informazione su quel dato reperto è indispensabile per risalire alla sua storia. Il cartellino identificativo, soprattutto se originale, potrebbe riportare il nome dell’anatomista che lo ha preparato, e quindi risalire alle tecniche utilizzate, l’anno di preparazione e molto altro. Altre informazioni riguardano il contesto storico: se il reperto ha subìto precedenti restauri o trasferimenti, se è stato sostituito il cartellino, ecc.
Il passo successivo è la pulizia. I reperti ‘a secco’, oltre a coprirsi di polvere, possono essudare del grasso dalle parti interne, o venire attaccati dalle muffe. La polvere viene pulita utilizzando un getto d’aria compressa, per gli essudati si utilizzano tamponi con determinati solventi, prontamente asciugati con aria fredda. Le muffe vengono rimosse meccanicamente e la parte lesa sottostante viene trattata con esano denaturato, un solvente ampiamente utilizzato nel restauro ed anche in ambito medico, poiché di rimuovere delicatamente le medicazioni adesive dalla cute.
Alcuni preparati possono presentare delle rotture, pezzi staccati o dislocati, collasso attorno allo scheletro inorganico di sostegno. In questo necessitano di riparazione. Le parti devono essere ricollocate con estrema attenzione, e vengono riattaccate utilizzando della semplice colla vinilica, che in caso di necessità può essere staccata facilmente.
Talvolta il sostegno inorganico deve essere sostituito. In passato il fil di ferro veniva ampiamente utilizzato per questo scopo, poiché era facilmente malleabile, poco visibile e poteva mantenere in posizione reperti grandi o complessi. Oggi gli viene preferito il plexiglass, che non ha la stessa propensione all’ossidazione, è più durevole e ancor meno impattante a livello visivo.
I reperti ‘in liquido’ hanno una procedura diversa, studiata per ogni distinta componente del manufatto che deve essere trattata diversamente: il campione biologico immerso, il liquido di conservazione ed il contenitore in vetro con relativo cartellino. Ognuna di queste componenti è ugualmente importante e ricca di informazioni storico-scientifiche.
Il restauro di questo tipo di preparato si focalizza principalmente sul liquido utilizzato, la quantità utilizzata e il suo stato di alterazione. Capire di che liquido si tratti non ha solo un’utilità pratica, ma anche storica. Per esempio, reperti immersi in un liquido differente dalla formalina potrebbero risalire ad un anno precedente il 1967, anno di scoperta della stessa, e che non hanno mai subito un’opera di manutenzione e restauro (oppure altri reperti antecedenti a quella data potrebbero essere stati immersi in formalina successivamente).
Difficilmente, in questo contesto, il reperto biologico viene toccato. Solo se esso presenta, a causa di elevato essiccamento, dei sali o muffe sulla sua superficie, ed in questo caso viene pulito meccanicamente e poi ripristinato nella sua condizione di conservazione immersa. Eventualmente poi viene spostato in una diversa matrice, laddove la precedente venga ritenuta non più idonea o troppo male conservata.
Testimonianze storiche
La procedura del restauro, e da quanto sia minimo l’intervento diretto sui reperti anatomici, ci fa intendere quanto le tecniche di preparazione rappresentino l’aspetto più distintivo di questi reperti.
Questi preparati non illustrano soltanto la natura dell’oggetto che mostrano, ma raccontano anche la storia della loro stessa preparazione. Sono vere e proprie mappe che tracciano il percorso della scuola di manifattura anatomica dei secoli XVII-XVIII.
In questi preparati si materializza la sinergia fra arte e scienza, riaffermando il concetto di una rappresentazione del corpo umano coerente ed unificatrice di diverse percezioni della realtà, quella artistico-filosofica e quella medico-anatomica (Esposito & Chiapparo, 2006). Un patrimonio intangibile degli studi svolti in passati alla ricerca della formula chimica perfetta, per mantenere intatta la materia organica nel corso degli anni. Arricchendola con un trattamento meccanico per essere esemplificativa dell’apparato esposto, in quanto veniva storicamente utilizzata per finalità di studio anatomico. Infatti, prima della fotografia, dei video, della plastificazione, questi reperti rappresentavano dei tesori didattici unici. Oggi, anche se hanno perso in parte la loro utilità scolastica, possono ancora essere usufrutto del pubblico come vere e proprie opere d’arte scientifiche.
E’ importante farli conoscere, non solo perché portatori di notizie storico-scientifiche, ma perché riguardanti una parte della storia della scienza che ha generato importanti dibattiti di carattere etico, antropologico e filosofico: la dissezione anatomica e l’esposizione di parti del corpo così preparate.
di Carolina Signorelli
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