Il cinema ritrovato: “Mulholland Drive”

Tra i grandi classici restaurati, il capolavoro di David Lynch al Cinema Astra

Siamo ormai giunti alla fine della rassegna Il cinema ritrovato, che si è tenuta al Cinema Astra con la proiezione di Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, Effetto notte di François Truffaut e, infine, di Mulholland Drive di David Lynch. Quest’ultimo, considerato il capolavoro del regista, racconta la vicenda di Betty (che si è appena trasferita a Los Angeles per iniziare la propria carriera di attrice), e del suo incontro con Rita, affetta da amnesia a seguito di un incidente di cui è l’unica superstite. La loro storia si intreccia con altre vicende, creando un racconto unico e a più livelli, che porta il film a una nuova concezione di fare cinema.

Locandina rassegna “Il cinema ritrovato”

Illusione o realtà? La maestria di Lynch

Mulholland Drive non è un film né semplice né lineare, e più si cerca di capirlo, più si è confusi. Tuttavia, proprio per queste sue caratteristiche, affascina il pubblico ed è considerato un capolavoro. Lynch, come un prestigiatore, ricrea su di un palcoscenico personale la magia dell’illusione, dove i personaggi si muovono, anch’essi disorientati, in una realtà che solo parzialmente è reale. A dispetto di Teseo che, aiutato dal filo di Arianna, riesce a uscire dal labirinto del Minotauro, i protagonisti (così come gli spettatori), invece che trovare l’uscita, trovano solo il groviglio della matassa (senza capo né coda).

Chi è il vero protagonista, se non l’illusione e lo spettacolo di magia che vive nel film? I personaggi sono solo un pretesto per poter raccontare una storia apparentemente normale, mentre sullo sfondo aleggia la volontà di raccontare la natura poliedrica e unica del fare cinema.

Mulholland Drive (fonte: Huffingtonpost.it)

Un film di tale portata nasconde la volontà di raccontare, in modo diverso e innovativo, anche la realtà che ci circonda, che non è mai quella che sembra e nasconde sempre un lato oscuro e incomprensibile.

All’uscita dalla sala, lo spettatore è colto dalla paura viscerale che ciò che ha visto, oltre a essere una metafora della realtà, abbia anche un fondo di verità. Tutti temono che gli incubi abbiano un’interfaccia con la vita e che si manifestino, come un deja vù, un bel giorno di una giornata qualunque. È una riflessione sulle paure più recondite dell’animo umano, ma anche sulla potenza della capacità di illusione dell’essere umano. Terminato il film, lo spettatore si chiede se, per due ore e mezza, è stato in balia del suo incubo peggiore o se ciò che ha visto è solo una storia un po’ atipica.

Mulholland Drive, alfa e omega

Le vicende hanno inizio lì, a Mulholland Drive, sulle famose colline di Hollywood, ma è l’inizio della follia o la fine di essa? Non si comprende e l’arcano rimane tale, dal momento che, alla fin fine, esso è un “non posto” che però ha fattezze quasi reali.

Come si guarda un film di tale genere? guardandolo e basta, senza cercare di capirlo. Sentendo, ascoltando e osservando, inermi, le vicende.

Mulholland Drive è una grande illusione e il miglior prestigiatore è David Lynch.

Mulholland Drive (fonte: wikipediacommons.org)

Forse una chiave di lettura ci è suggerita dallo stesso regista, che – un po’ come a voler alleviare lo stato d’animo dello spettatore – dona una possibile risoluzione del film. Infatti, una delle frasi più iconiche è collocata a metà della pellicola:

“No hay banda! Non c’è orchestra. Il n’est pas de orquestra! Questa è solo una registrazioneNo hay banda! Tuttavia, sentiamo l’orchestra. Se noi vogliamo sentire il suono di un clarinetto, ascoltiamo… è solo una registrazione. È un’illusione… Silencio.

Il silenzio degli spettatori in sala, pertanto, è la chiave per poter comprendere il film. È un’illusione che ha corpo, ma che non ha spiegazioni logiche. È un sogno terribile, dal quale le persone vorrebbero svegliarsi. Mulholland Drive è, pertanto, l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, l’inconscio che prende forma e visione sullo schermo. È solo un’illusione, da osservare nel silenzio del dormiveglia.

di Erika V. Lanthaler

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